Dopo i 50 anni in genere si inizia a dosare il PSA che, prescritto frequentemente dai medici di base tra gli esami di screening, ha consentito un netto aumento delle diagnosi precoci del tumore della prostata con un progressivo calo della mortalità per questa malattia negli ultimi 20 anni.
Infatti, dopo il riscontro di valori aumentati di PSA ed attenta analisi specialistica del caso, in genere si procede ad esecuzione di una biopsia prostatica, con possibile diagnosi di tumore prima della sua manifestazione clinica, ovvero le metastasi.
La diagnosi precoce del tumore della prostata mediante biopsia e la attribuzione al tumore del Gleason Score, ha permesso inoltre di distinguere le neoplasie più aggressive da quelle cosiddette “indolenti” cioè, ad andamento così lento, che possono anche non essere trattate con chirurgia o radioterapia, ma semplicemente “osservate”.
In un recente articolo pubblicato sulla rivista Lancet (una delle più prestigiose riviste in campo medico a livello mondiale) la biopsia prostatica fusion risulta essere nettamente più sensibile della biopsia ecoguidata nella diagnosi del tumore della prostata. Questo significa che vi è una maggiore possibilità che un soggetto malato di neoplasia prostatica riceva una diagnosi di tumore sottoponendosi a biopsia fusionI piuttosto che a biopsia ecoguidata, che invece espone ad un maggior rischio di falsi negativi, cioè di persone che pur essendo ammalate, risultano erroneamente sane per mancata identificazione della malattia.
Grazie alla ricerca e alle nuove tecnologie con conseguente abbattimento dei costi, le biopsie “fusion”, diventeranno una pratica clinica diffusa e cambieranno completamente (in meglio) le prassi di diagnosi e monitoraggio del tumore della prostata.